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Abituarsi alla fine

Tornato a Pokhara è il momento di prendere una decisione sul da farsi.

Dal mio arrivo in Nepal il pensiero va spesso verso l’Upper Mustang, una remota regione sull’altopiano Tibetano, al confine con la Cina (Tibet non si può più dire). La guida di cui mi fido, incontrata qualche settimana prima, ha il padre gravemente malato, non può muoversi. È una zona ad accesso limitato ed è obbligatorio averla. Potrei cercarne un’altra, non senza difficoltà.

Lo voglio fare? Non ne sono più così sicuro, forse non ora. Vorrei vedere realtà diverse, in vesti diverse.

Nel mio progetto di viaggio originale dovevo andare in Russia ed avevo pensato a Workaway come un ottimo modo per avere un rapporto diverso, più stretto con la popolazione locale. Workaway è una piattaforma di scambio-lavoro, che permette ad un ospite di dare un contributo a varie realtà, più o meno casalinghe, non per forza agricole, in cambio di vitto e alloggio. Uno stimolante network di volontariato ed una grande opportunità per viaggiare mettendo un attimo da parte le vesti del turista. Mi torna in mente.  Controllo, ci sono un sacco di proposte. Mi stuzzica una proposta in Ilam, l’estremo est del Nepal, confinante con la regione Indiana del Darjeeling, con cui condivide una grande tradizione per la cultura del tè. Il viaggio per arrivarci sarebbe lunghissimo, le strade Nepalesi tra le peggiori al mondo. Essendo la prima esperienza rimango nel mezzo, mi accordo con una farm nel Bagmati, a qualche ora da Kathmandu. Coltivano caffè ed ibisco tra le altre cose, contatto i gestori, sembrano disponibili e positivi. Il dado è tratto. Fra due giorni parto.

È il momento dei saluti. In pochi istanti, senza tante smancerie, si saluta, con poche garanzie di rivederli, quelli che fino a pochi giorni fa erano perfetti sconosciuti, con cui si sono condivise grandi esperienze, panorami stupefacenti e fatiche non indifferenti. Sicuramente i giorni sull’Annapurna tendono a creare legami più forti rispetto ad una bevuta in un pub. “Se vieni nel mio paese dimmelo, ti ospito” In Cile, negli USA, in Israele, Korea, Svizzera, Italia.

Il mondo sembra improvvisamente più piccolo. Un aspetto, uno dei più belli del viaggiare, forse il più prezioso, che rompe barriere (immaginarie) meglio di qualsiasi esplosivo. Trovandoti in un paese a migliaia di chilometri da casa, senza piani precisi, realizzi presto che, tolto il naturale groviglio di pregiudizi ed una buona parte di egocentrismo, sei in una situazione simile a tanti altri viaggiatori. L’ammasso di idee che avevi di un Paese e di conseguenza delle persone che lo abitano, filtrato attraverso anni di telegiornali catastrofici, notizie acchiappa-click, il sentito dire e semplice diffidenza verso il diverso si può smaterializzare più in fretta delle nubi dopo un temporale estivo. Tolti i preconcetti rimangono le persone, ognuna con i propri condizionamenti, sociali, ambientali e di qualsiasi altro tipo, ma pur sempre persone, come te. Meno piacevole, ma estremamente formativo è abituarsi ai saluti, a dire addio.

Siamo abituati a vivere in compartimenti stagni, illudendoci che tutto sia per sempre.  Incapaci di guardare altrove e terrorizzati all’idea del cambiamento. Viaggiando il cambiamento è quotidiano, di clima, di cibo, di persone. Vale anche per i rapporti umani, la stragrande maggioranza superficiali, spesso interessati, altri, per fortuna, meno. Ci si abitua a non giudicare al primo sguardo, molto spesso si sbaglierebbe. A nascondere il timore di iniziare un discorso. Invertendo la prospettiva, qualcuno dovrebbe aver paura a parlare con te o chiederti aiuto? Pensandoci bene ha poco senso, ma è uno schema mentale che può bloccarci e creare distacco. Accettare la transitorietà delle cose, dei legami, delle situazioni e goderne nel momento in cui ci sono, è un primo passo per vivere meglio. Viaggiare è un ottimo allenamento per entrare in quest’ottica. A volte è più facile, altre meno, ma che sia una persona, una città, un luogo, un’ abitudine, si impara a dire addio.

Si vive nel presente.

Il primo viaggio è di ritorno a Kathmandu, in Nepal le strade principali sono poche e per spostarsi si passa spesso dagli stessi punti nevralgici. Incontro un ragazzo irlandese dai capelli con più colori dei miei, dichiaratamente gay, penso che per lui essere in Nepal abbia un grado di difficoltà ulteriore, quanto meno a livello psicologico. L’omosessualità qui non si fa notare o meglio non può farsi notare. Ingenuamente, appena arrivato, ero convinto di vedere molti omosessuali, quasi sicuramente mi sbagliavo.

I Nepalesi hanno la tendenza a ricercare spesso il contatto fisico, soprattutto tra persone dello stesso sesso. È comune vedere due uomini camminare abbracciati o tenersi per mano.

Nessuno ci fa caso.

A parte me, che in questo credevo di vedere una grande apertura mentale. In realtà, per quanto sia l’unico paese dell’Asia del Sud che non criminalizza le relazioni tra persone dello stesso sesso, non le tollera. Facendo outing l’emarginazione sociale è dietro l’angolo. Ci sono paesi con posizioni molto più intransigenti sul tema, ma non prenderei esempio dai peggiori della classe. La strada è ancora lunga. L’indomani anche la mia non è breve.

Il Bus

Il mattino ho il bus per Nawalpur, da lì raggiungerò la Biloba Farm. L’autobus delle 7 è al completo, anzi no. In qualche modo riesco a prenderlo. Inaspettatamente mi danno anche un posto a sedere in prima fila, sicuramente mi fan pagare più del dovuto, accetto di buon grado lo scambio. Mi aspetta una lenta e mai noiosa agonia, 6 ore e mezza per percorrere 75 chilometri. Tra soste per il tè, soste per il pranzo, soste per la mucche in carreggiata e soste senza motivo apparente, almeno ai miei occhi. È un viaggio nel viaggio, in pieno stile Nepalese. Progressivamente la gente si ammassa oltre ogni legge fisica.

La figura del “portinaio” regala anche oggi emozioni.

Fisicamente imponente rispetto alla media locale, fa costantemente su e giù dal tetto dove sono allocati i bagagli più ingombranti, tra cui il mio zaino. Spesso e volentieri rimane sospeso sulla scaletta, dall’interno del mezzo si vedono solo i suoi piedi.  Rigorosamente in ciabatte Nike fasulle, non molto stabili all’apparenza, indossando pesanti calzettoni di spugna. Una volta tornato dentro dirige la folla in modo autoritario, con rapidi e decisi gesti decide chi può ancora salire, chi no. L’ultima ora di viaggio, quando ormai la vita com’era prima della partenza è solo un lontano ricordo e può succedere di tutto, diventa pure autista. Finalmente ha il comando completo del veicolo e dei nostri destini, mi sembra l’unico uomo capace di condurci a Nawalpur, la strada è ormai diventata una mulattiera con profonde buche. Un suo poco raccomandabile scagnozzo lo sostituisce all’entrata del mezzo.

Devo avvisare Deepa, la proprietaria della farm del mio imminente arrivo. Per qualche strano motivo il mio telefono non mi permette di chiamare, comunicare con qualcuno in inglese qui dentro è pura utopia. L’uomo al volante, sempre lui, capisce in fretta e non manca di prestarmi il suo cellulare.

In qualche modo arrivo a Nawalpur.

Mi aspettano i tre attuali volontari della farm venuti a prendermi “in città”. Ora solo 35 minuti di cammino ci separano dalla Biloba Farm. Tra la vegetazione si scorge il variopinto tetto della struttura. Il posto è incantevole, la vista sulla valle rilassa l’animo, il verde ipersaturato regna sovrano.

Kathmandu è a 75 chilometri, 6 ore, qualche anno luce di distanza.

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Comments (2)

  • Joanna 2 anni ago Reply

    What an incredible journey, one that will always stay with you and has given you so much.
    It’s been a privilege to read about it.

    Leonardo 2 anni ago Reply

    It’s a privilege to share with everyone,
    Thank you Joanna!

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