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Costruire il Taj Mahal

Cammino.

Per conoscere una grande città mi piace camminarla. Scelgo un punto d’interesse, un monumento, un parco, un palazzo storico, qualcosa che istintivamente mi attrae e ci vado incontro.

Non seguo la strada più breve, spesso ho solo una vaga idea della direzione e percorro le vie che, per qualche futile motivo, mi viene voglia di percorrere, guardandole da lontano o sulla mappa nel telefono. Il più delle volte le vie strette hanno la precedenza sulle altre, forse il fatto che siano raccolte, meno battute me le fa percepire come più autentiche, forse perché è più facile intrecciare rapporti umani e non sai cosa ti aspetta dietro ogni angolo.

Naturalmente questa modalità di esplorazione fa sì che percorra più chilometri del previsto e finisca in posti non necessariamente turisticamente attrattivi.

A Delhi non pare la tattica migliore, non è esattamente una città a misura d’uomo. Se ci aggiungiamo il sole, le vampate di calore rilasciate dall’asfalto, il termometro che segna 43° mi ritrovo presto in qualcosa di molto simile alla Marathon de Sables, con l’aggravante che nella capitale Indiana c’è pure un traffico infernale.

Come un mantra due parole mi risuonano nella testa: vai via.

Non solo da Delhi.

I miei timori si sono rilevati fondati, andare a Varanasi (qui puoi leggere il mio precedente post sull’India) nel mese più caldo dell’anno sarebbe un calvario.

Cambio rotta.

È il vantaggio di non avere un rassicurante, ma limitante, piano prestabilito.

Non sai dove sarai, dove dormirai, mangerai di lì ad una, due notti.

Strano a dirsi, ma le priorità sono queste.

Viaggiare liberi

Inevitabilmente la mente è comunque portata ad immaginare scenari, situazioni future, ma ci darai sempre meno importanza. Molto probabilmente non si materializzerà niente di simile e va bene così. In questo modo si annulla quasi totalmente l’aspettativa, una delle più grandi cause di insoddisfazione.

La certezza (esistente solo sulla carta) di avere una destinazione precisa per il tal giorno, un piano a cui attenersi, viene scambiata con l’estrema flessibilità e la totale libertà di scelta.

Si segue il proprio ritmo, si apprezzano di più le cose che si vedono, si è grati anche per un semplice pasto.

Come in ogni scambio qualcosa si prende e qualcosa si cede.

Nel “pacchetto della libertà” sono compresi spirito di adattamento, l’incertezza e il dubbio sulla strada migliore da prendere tra le molte possibili. Non è escluso che questo possa generare ansia e timore di non imboccare quella giusta, a tal punto diventa utile non guardarsi troppo indietro e ricordarsi i motivi che ci hanno portato a prendere quella strada, quella decisione.

Seguire una coerenza interna, personale aiuta nei momenti difficili che, inevitabilmente, arriveranno.

La libertà è sempre relativa e terminerà nell’esatto momento in cui si prenderà una decisione sul prossimo passo da compiere, ma poter prendere questa decisione con i propri tempi, in base alle proprie necessità, sensazioni di quell’istante cambia drasticamente le cose.

Fa tutta la differenza del mondo.

Si realizza l’importanza di pensare con la propria testa, agire in base a quello che si sente.

Non hai bisogno di seguire alla lettera la bucket list del viaggiatore/influencer di turno, ossia la lista dei posti ASSOLUTAMENTE da vedere.

La naturale trasposizione del viaggiare in ottica consumista, meraviglie naturali, intere città diventano l’equivalente di una lista della spesa, prodotti da acquistare, metterci piede in questo caso, consumare e cancellare.

Avanti il prossimo.

È anche un buon allenamento per la vita quotidiana, ancor di più nei tempi odierni dove regna l’incertezza.

Ogni giorno siamo costretti a compiere piccole, grandi scelte.

Abbagliati da infinite possibilità e da condizionamenti esterni e sociali quante volte ascoltiamo noi stessi prima di scegliere?

Spesso agiamo senza consapevolezza.

In ogni caso non possiamo prevedere con certezza le conseguenze delle nostre scelte, è salutare quindi non farsi prendere dalla frenesia, capire quali sono le vere priorità per noi stessi ed affrontare i problemi uno alla volta.

In viaggio a volte si procede senza motivo apparente, rimane però imprescindibile avere almeno un minimo di conoscenza sulla zona e sulle possibilità di scelta che si hanno.

Quasi sempre il motivo della scelta lo si capirà soltanto dopo, insieme al fatto che una strada giusta a priori non c’è mai stata.

La strada si costruisce, insieme al significato.

Passo dopo passo, si dà forma al proprio percorso.

Lavori interrotti



Mi muoverò quindi subito verso nord-ovest, ma prima di intraprendere presunti cammini spirituali devo salire su un treno in direzione Aggra per vedere il Taj Mahal.

Dico “devo” non perché è il monumento più visitato d’India e devo farmici assolutamente un selfie.

Devo perché ho sempre sognato di vederlo.

Per qualche strano motivo ne avevo un puzzle 3D da bambino, quelli da costruire con più di mille pezzi, di cui penso in tutto saranno stati venduti quindici esemplari.

Portarlo a termine mi sembrava di per sé un’impresa titanica, impossibile compierla senza l’aiuto di un architetto, non credo infatti di esserci mai riuscito.

Nel caso era stata probabilmente opera di mia sorella.

Tanto bastò a farmelo immaginare come una chimera, qualcosa che esiste soltanto nel mondo dei sogni o in una dimensione ultraterrena.

Catapultato nel 2022 sono piuttosto preoccupato dalle storie su orde di procacciatori di clienti assetati di denaro straniero, borseggiatori, colonne di turisti, finti bazar, sovrapprezzi allucinanti.

Una parte di me eviterebbe il viaggio ad Aggra.

È ben lontano dall’India dei miei sogni.

Tuttavia il conto in sospeso con il puzzle grida ancora vendetta e sono troppo vicino per tirarmi indietro.

La macchina fotografica si è comunque già autodistrutta in Nepal poco dopo aver lasciato la coffee farm, quella non me la possono rubare.

Carico solo delle mie paranoie mi dirigo in stazione.

Portafogli con le gambe

A questo punto sono in viaggio da quasi due mesi, mi ritengo abbastanza sgamato e non così facile da raggirare.

Sceso dal treno c’è l’inferno degli autisti di tuk-tuk, procacciatori di clienti per negozi fittizi di gioielli, tappeti, tessuti con articoli di qualità infima e prezzi esorbitanti.

Sciacalli che attendono al varco le prossime vittime.

Una volta entrato in questo girone Dantesco riceverai forti pressioni per comprare, non dovrai farti intimorire ed avrai bisogno di molta forza di volontà per uscirne con il portafoglio indenne.

Prima regola: avanzare con passo deciso.

Di fianco a me turisti anglosassoni di mezza età cadono come mosche nella tela del ragno.

Seconda regola: evitare il contatto visivo.

Sembra facile, ma chiaramente non si limitano a chiederti se hai bisogno di un taxi, ti camminano fianco a fianco sfoggiando il meglio del loro repertorio, ripetuto a ritmo incessante, insinuandoti ogni possibile dubbio sulla fattibilità di arrivare alla tua destinazione senza il loro aiuto.

Alla fine perché ti hanno convinto della loro buona fede o per sfinimento è molto facile che tu ceda.

Esco incolume dalla stazione.

In ogni caso ho bisogno di un tuk-tuk per arrivare al Taj Mahal, la tattica è di trovare un’autista che se ne sta in disparte e fare in modo che sia io a sceglierlo e trattare il prezzo.

Povero illuso. Senza rendermene conto sono già stato scelto.

Sembra un ragazzo a modo, ci tiene a differenziarsi dagli altri.

Ho tutti i dubbi del caso, dopo una breve trattativa arriviamo ad un buon prezzo e si va.

Troppo breve per non esserci qualcos’altro sotto.

Mi fa credere di essere fortunato ad aver evitato i suoi colleghi truffatori, tira in ballo il karma, attribuisce significati mistici al nostro incontro.

Sono sempre più diffidente.

Scopre le sue carte, vuole vendermi un servizio di trasporto giornaliero, dopo il Taj Mahal mi trasporterà al bazar e al Red Fort di Aggra, nel quale dice non ha senso entrare perché conosce un posto da cui si vede benissimo evitando di pagare il biglietto.

Mi fa capire che vuole farmi risparmiare, sta dalla mia parte. A quanto pare tiene moltissimo ai suoi clienti.

Poi arriva il colpo di genio.

Un diario cartaceo pieno di recensioni scritte da altri turisti.

Lo sfoglio divertito. Spagna, Inghilterra, Portogallo perfino Giappone.

Le caligrafie sono sempre diverse, la grammatica spagnola è perfetta.

Non può essere un falso.

Mi ha instillato il dubbio.

Alla fine ho bisogno di un trasporto per la città, il tempo a mia disposizione non è molto, il prezzo considerando il luogo è buono e dubito che la concorrenza sia molto meglio.

Gli scritti lasciati da altre persone nella mia stessa situazione sembrano la migliore garanzia.

Mi sembra il male minore.

Accetto la sua offerta.

Arriviamo nei pressi di uno dei cancelli di entrata ai giardini che circondano il mastodontico monumento, mi ammonisce di non fidarmi di nessuno là dentro e stare attento al portafoglio.

Mi lascia il suo numero di telefono per quando uscirò e non si fa nemmeno pagare la corsa dalla stazione a qui, senza nessuna garanzia che effettivamente torni a farmi vivo.

Fatto che gli permette di guadagnarsi indissolubilmente la mia fiducia.

Fiducia che svanirà qualche ora dopo, quando alla prima sosta il presunto bazar si rivelerà essere un negozio-trappola per turisti.

Lui è gentile e non fa pressioni per farti acquistare, a differenza del proprietario che cerca in tutti modi di vendermi un anello dalle fittizie capacità curative.

L’autista si rivela un furbacchione più che un delinquente, finge di proteggerti da presunti pericoli in cui incapperesti senza la sua guida.

Non fatico ad immaginare che diverse persone abbiano avuto una buona esperienza con lui.

A qualcuno può andare bene, ma personalmente non posso accettare di essere trattato come una vacca portata di fattoria in fattoria per essere munta.

Gli faccio presente che i patti non erano questi, pago le corse come da accordi e vado al Red Fort per i fatti miei.

Insieme ad una decina di euro lascio dietro di me la convinzione di fidarsi a cuor leggero dei giudizi altrui.

Poteva andare peggio.

Il puzzle si completa

Al Taj Mahal per evitare assembramenti il biglietto va fatto online attraverso un QR code.

Un tizio si avvicina dicendomi che non funziona e di comprarlo da lui.

Non gli rispondo nemmeno, divento ancora più paranoico, vedo possibili truffatori ovunque.

Arrivato ai tornelli si avvicina un altro uomo con tanto di cartellino appeso al collo.

“E se fosse un falso? Se l’avesse stampato lui?” mi chiedo.

In realtà mi sta solo invitando a ritirare la bottiglia d’acqua inclusa nel biglietto.

Forse sto esagerando, penso.

Fa un caldo disumano, mi spalmo nella fila addosso agli altri esseri umani.

Non vedo altri occidentali, forse perché l’India ha da poco riaperto post-COVID o forse la maggior parte vanno con tour organizzati ed i tour organizzati non ti portano lì alle 11.30 quando ci sono 42 gradi.

Fatto sta che ora sento di essere io l’attrazione.

Un uomo sui trentacinque anni si sistema vicino a me ed inizia a parlarmi, dal suo sorriso, dalla sua cadenza di voce sento il suo genuino interesse nei miei confronti.

Si chiama Suresh, viene dallo stato Indiano del Rajasthan ed è un professore d’inglese.

Ha una discreta parlantina, non manca di fornirmi diverse informazioni storiche, culturali, apprezzo la sua compagnia.

Varchiamo insieme il cancello di una delle sette meraviglie del mondo moderno.

Il Taj Mahal compare in fondo ad un interminabile giardino, il quale non fa che donare profondità e prospettiva all’opera.

Maestoso, magniloquente eppure in qualche modo essenziale.

Lì davanti ogni parola perde di senso.

È significativo dire, senza vergognarmi, che alla sua vista brividi hanno iniziato a risalire lungo il mio corpo, sempre più intensi.

Se non fosse abbastanza avere i brividi con più di 40 gradi, presto vere e proprie lacrime mi scendono lungo il viso.

Mai sperimentato niente di simile.

È l’opera umana meno terrena che mi sia capitato di vedere.

Nulla può turbarmi in questo momento, mi sento scaraventato in qualche condizione esistenziale parallela.

Intorno a me tutto pare ovattato, distante, ininfluente, superfluo.

Suresh continua ininterrottamente a parlarmi, ma percepisco la sua voce come un eco distante.

Sono in qualche modo lontane le chiassose carovane di turisti indiani urlanti che urtano ripetutamente il mio corpo e le deprimenti scene di persone che si fanno foto facendo finta di tenere la cupola del Taj Mahal in mano.

Tornato sulla Terra, dopo il dodicesimo selfie insieme a Suresh lo ringrazio per la compagnia e mi incammino da solo verso il monumento.

Ci sono varie cose che denotano l’unicità di questa struttura.

La perfetta simmetria, ricercata in ogni elemento ed apprezzabile da ogni prospettiva, ogni angolo.

I giochi di luci ed ombre sul marmo, capaci di far variare la percezione del colore della struttura a seconda dell’ora del giorno in cui lo si osserva.

La sua storia.

È un mausoleo, un’enorme tomba costruita dall’imperatore mogul Shah Jahan al fine di ospitarvi la tomba della sua terza moglie, morta durante il parto del quattordicesimo figlio.

A quanto si dice il loro era un grande amore ed in punto di morte, in preda al dolore le promise di onorarla con un imponente monumento.

23 anni dopo fu concluso il Taj Mahal.

Schiavi della bellezza







È la perfetta rappresentazione della volontà umana di vivere in eterno, trascendere il tempo.

L’ennesimo, forse il più alto, risultato dello scontro dell’uomo con la propria finitezza, con la morte.

«Una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo» per il poeta indiano Rabindranath Tagore.

Non riesco ad immaginarlo in costruzione, sembra emerso come un blocco unico, indissolubile dal terreno per ricordarci dove può arrivare l’amore, il dolore.

Mi chiedo chi fosse realmente la donna a cui è dedicato.

Chi l’uomo che ha avuto questa visione e si è sforzato di mantenerla per così tanti anni, attraverso lo sforzo immane di ventimila persone e costi spropositati.

La bellezza non è mai inutile, figuriamoci in questo caso dove è possibile ammirarla dopo 400 anni, intatta, palpabile.

Qualcosa di simile non è mai solo l’opera di un singolo, imperatore o architetto che sia. È il solenne simbolo delle straordinarie capacità umane come gruppo, collettivo, specie.





Eppure non posso fare a meno di percepire un amaro retrogusto.

Quante di queste 20000 persone hanno effettivamente scelto di prendere parte alla costruzione?

Quante sono state direttamente ed indirettamente sfruttate, sacrificate per soddisfare il desiderio di un potente?

Per quanto non tolga nessun valore all’opera, non posso fare a meno di vedere anche questo nel Taj Mahal.

Rimango lì, seduto a contemplare la costruzione più bella e grandiosa che abbia mai visto allo stesso tempo sentendomi un po’ in colpa per il fatto che esista.

Una parte di me è ancora lì ad ammirarlo, l’altra spera che l’unica costruzione a cui l’uomo oggi voglia dedicarsi sia quella di un mondo equo e solidale.

400 anni dopo c’è ancora chi muore in condizioni di schiavitù, ora costruiscono stadi.

“È una certezza strana e insopportabile sapere che la bellezza monumentale presuppone sempre una schiavitù ed è tuttavia bellezza.

Non si può non volere la bellezza e non si può volere la schiavitù.

Forse è per questo che io pongo al di sopra di tutto la bellezza di un paesaggio che non è pagata con nessuna ingiustizia e dove il mio cuore è libero”.

Albert Camus

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Comments (2)

  • Leonardo 1 anno ago Reply

    È un piacere, grazie a te Laura!

  • Laura 1 anno ago Reply

    Ciao L una descrizione chiara puntuale ed invitante , come sempre sai fare , ma anche arricchita di riflessioni profonde e piene di umanità .
    Come sempre ti ringrazio per le tue pubblicazioni che ci fanno imparare ma anche riflettere molto sul senso della vita .
    Buon proseguimento
    Un abbraccio Laura

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