Loading...

Elogio della lentezza

Tra le tante memorabili tratte che si percorrono durante l’Annapurna circuit, è difficile stabilire quale sia “migliore” delle altre, un possibile candidato è il sentiero che, passata Dhikur Pokhari, porta a Ghyaru ed Upper Pisang .

Quest’ultimo tradizionale villaggio della regione di Manang, con case in sasso, residenti che si spostano principalmente a cavallo e soprattutto una meravigliosa e duratura visuale sull’Annapurna III, a lungo uno dei tanti rebus alpinistici irrisolti dell’Himalaya. Soltanto un anno fa la cresta sud-est è stata scalata con successo per la prima volta da tre alpinisti ucraini. A tal proposito, anche solo per farsi un’idea di quanto possano essere inospitali queste cime, consiglio il breve documentario “Annapurna III: Unclimbed” di David Lama sul fallito tentativo di ascesa del 2016. Proseguendo la vista migliora ancora, alla “Angel’s View” di Ghyaru (3730m), raggiungibile dopo aver lasciato gambe e parecchio ossigeno su una rampa verticale di un chilometro e mezzo. Nell’ascesa incontro il portatore di una coppia di signori francesi, un minuto Sherpa, non peserà più di 50kg, che avanza inesorabile piegato dal peso dell’immane carico che trasporta. Ci fermiamo in contemporanea a tirare il fiato ed ammirare il panorama, sembra avanti con l’età, ma potrebbe essere solo un’impressione errata, la fatica lo logora, l’intenso martellare del sole fa il resto. Comunichiamo per lo più a sorrisi e sguardi, in qualche modo mi chiede dove vado e non sembra entusiasta del fatto che io non abbia un portatore.

Capisco che, per quanto massacrante, il suo è un lavoro, una fonte di sostentamento, probabilmente non fa altro da quando è venuto al mondo e forse tanto gli basta ad essere sereno e gioioso come genuinamente appare.

Giorno dopo giorno noterò che, per quanto ciò li privi di un impiego, questi uomini sono molto rispettosi di chi decide di affrontare i sentieri solo con le proprie forze, lo incontrerò più di una volta nei giorni successivi e mi saluterà sempre calorosamente e con affetto. Giunto a Ghyaru la montagna appare come un’infinita distesa di neve e ghiacci. Blocchi grandi come transatlantici sembrano sul punto di staccarsi da un momento all’altro, è un mondo a parte, impossibile descriverlo a parole, non rimane che contemplarlo sferzati dal tagliente vento.

Il bello del muoversi a piedi sta nell’osservare le cose da prospettive sempre diverse, lentamente. Permette di assaporarle, farle proprie, capirle e no, non ci si annoia. Poco a poco, ma costantemente tutto si sposta. Un passo alla volta ci si lascia indietro quelle che sembravano gole invalicabili, si raggiungono scenari che sembravano lontanissimi ed è gratificante, a fine giornata, voltarsi indietro e vedere quanta strada si è percorsa. C’è modo di digerirle le cose. Il panorama non è mai lo stesso, siamo noi che abbiamo perso la capacità, una volta fondamentale per la nostra sopravvivenza, di osservare. Necessitiamo di sempre più stimoli, sempre più veloci, più spettacolari. Alla fine non sappiamo neanche cosa stiamo guardando. Non abbiamo mai avuto occhiali migliori, eppure siamo ciechi.

La nostra direzione al momento è questa, non nego che mi metta a disagio. Sono naturalmente lento, almeno così mi dicono, ma spesso me ne accorgo anche da solo.  Parlo lentamente, non riesco a fare altrimenti, con il tempo la cosa mi è venuta anche utile, ho modo di capire se la persona che ho davanti mi sta ascoltando veramente.

Mi perdo nelle cose, osservo, penso, interiorizzo. Devo avere fretta e sentirmi con il fiato sul collo per essere efficiente e socialmente accettabile da questo punto di vista. Posso provare a farlo, ma sul lungo termine non è la mia dimensione. Mi sento frustrato, come se dovessi ingozzarmi senza sosta. E’ un principio valido per ogni cosa, anche i viaggi. Ho sempre amato farlo, ma iniziavo a dubitare del buon senso di andare dall’altra parte del mondo per girare come una trottola da un punto all’altro, spendendo il triplo e faticando a capire cosa mi arrivasse in cambio.

Funziono meglio con i miei tempi. Non c’è nulla di sbagliato. Ci è voluto qualche anno per comprenderlo. Qualche tempo fa, alla fine di un corso odontoiatrico biennale, per lo più pratico, acquistai una copia del libro appena scritto dal mio istruttore/collega. 

Mi scrisse una dedica:

“A Leonardo, che da tartaruga sta diventando antilope. Con affetto”. Nel leggerlo sorrisi, ho il massimo rispetto umano e professionale per lui, all’inizio mi sentivo quasi premiato da queste parole. “Sto diventando uno giusto!” pensai. Veloce, produttivo, in linea con le aspettative del gruppo. Tuttavia, non ne ero totalmente convinto. Anche qui ci è voluto un pò di tempo per capirlo. Pensandoci bene non mi è mai interessato essere un antilope, devi mimetizzarti nel branco, sei velocissimo, ma solo quando devi scappare da qualcuno, generalmente un leone. Scherzi a parte, c’è sempre qualcuno più veloce e non bisogna sforzarsi di imitarlo. Snaturandoci perdiamo i caratteri che ci contraddistinguono, che possono essere anche i nostri punti di forza, basta guardarli da un’altra ottica. Mi trovo più affine con la tartaruga. E’ lenta? Si, non le serve andare di corsa perchè ha un bellissimo guscio e vive molto a lungo. Perchè avere fretta? Per andare dove?

E’ una questione di prospettive. La stessa testuggine è lenta sulla terra, ma veloce in acqua. Cos’è più importante? Nessuna delle due, sono soltanto diverse. 

Il problema semmai è voler vedere la direzione, il modo di essere predominante come l’unico possibile. Un mondo che va ad una sola, folle, velocità conviene a chi vende le automobili o fa indagini di mercato. Personalmente a me no. Vado al mio ritmo. Guardare il mondo è come essere al cinema. Di antilopi ce ne sono già tante, sto bene così, tartaruga ero e tartaruga rimango.

Dopo giorni in cui ho incontrato solo piccoli villaggi Manang mi sembra una metropoli.

Ci sono addirittura dei negozi, un museo (chiuso) ed un centro specializzato in mal di montagna. Tanti trekkers si fermano qui un paio di notti per acclimatarsi all’altitudine, prima di affrontare il lago di Tilicho ed il passo di Thorung La.  La fretta in alta montagna non paga. 

Da un paio di giorni al pomeriggio ed alla sera patisco il freddo più della reale temperatura, comunque vicina allo zero. Batto letteralmente i denti. E’ sicuramente dovuto alla quota. Il mio corpo deve abituarcisi. Non aiuta il fatto che negli alloggi non ci sia riscaldamento, al di fuori della stufa presente solo nella sala da pranzo ed accesa non prima del calar del sole, centellinando la legna. Una volta infreddoliti è difficile scaldarsi.

Al mattino splende un gran sole e decido di andare alla Praken Gompa, un eremo per la meditazione costruito con roccia, sassi e fango a 3950m, per favorire il processo di acclimatamento. Sto meglio ed in breve tempo risalgo i 400 metri di dislivello che lo separano dal paese. Qui da 10 anni vive una Lama tashi, una signora di 74 anni, che benedice l’attraversamento del passo legando al collo un laccio sacro dai colori sgargianti in cambio di una piccola donazione, solitamente 100 rupie (0,75 euro). Non ho cambio, le lascio quindi una somma cospicua, almeno per lei, ricambia offrendomi un tè nella sua piccola gompa tibetana. L’interno è modesto ed essenziale, semi buio, il sole che entra dalla porticina colora i Thangka (stendardi) tibetani che tappezzano i muri, l’atmosfera è solenne. Lei ispira pace e tranquillità solo a guardarla.

Racconta che dopo aver preso una brutta storta non riesce più a scendere in paese. Le credo, la discesa è ripidissima. Un abitante di Manang periodicamente le porta quel poco che le serve per vivere.

Prima di lei viveva lì suo padre, vissuto fino a 101 anni. Che la benedizione funzioni o meno poco importa (lo scoprirò a breve?), è un bel momento ed è incredibile la vita che si conduce in questa casetta incastonata nella roccia con una vista mozzafiato sul Gangapurna, Annapurna III, IV e valle di Manang. Non ha nulla, secondo i nostri standard, eppure non saprei dire cosa le possa davvero mancare.

Tornato in “città” incontro Enzo, un ragazzo della Patagonia cilena conosciuto a Pokhara, insieme ad altri domani partirà per il lago di Tilicho. La compagnia sembra piacevole e interessante e scelgo di unirmi a loro. Il lago si trova a 4910 metri di altezza, i nepalesi lo vantano come il più alto al mondo, non è chiaro se lo sia per davvero. In ogni caso arrivarci non è semplice ed è fortemente sconsigliato affrontare il percorso da soli. Per l’esposizione di alcuni tratti ed il terreno franabile è la parte più insidiosa di tutto il circuito, del quale in realtà è una piccola deviazione, non tutti lo fanno, ma leggendo e sentendo le impressioni di chi ci è stato sembra compensare la fatica spesa. Nel gruppetto c’è anche Adam, un ragazzo poco più che maggiorenne del Minnesota, che sta affrontando l’Annapurna circuit in bicicletta, per lo più percorrendo la strada principale.

Stupisce per la semplicità e spensieratezza con cui affronta la cosa. Arrivato da Kathmandu pedalando strade oscene, nonostante l’età non è un novello, ha già percorso lunghi tratti in India ed in Europa, ne parla con modestia, come se la mamma lo avesse mandato a prendere il pane. Lui non verrà a Tilicho, inaffrontabile in bici, neanche spingendola. Sarei curioso di vederlo attraversare il passo, ho pochi dubbi sul fatto che ce la farà. La sera sopra il Gangapurna ci sono nuvole minacciose, tuoni rimbombano senza sosta. E’ uno specchio delle mie preoccupazioni, non nego che l’ascesa al lago sia stata un pensiero ricorrente negli ultimi giorni, non sempre con un’accezione positiva. Sarà complice la signora della Gompa, ma ora che il momento è arrivato mi sento pronto ad affrontarlo.

Alle 6.30 del mattino, poco prima di partire, sono nel “centro” di Manang, fermo ad osservare due locali intenti a dirigere un paio di buoi trascinanti un aratro, dietro di loro una signora ha un cesto di bulbi di patate e li spinge nel terreno dopo il loro passaggio. Nel mentre dei cani randagi si rotolano e giocano a poca distanza. Partiamo.

Nel gruppo c’è libertà, ci si divide spontaneamente a seconda del passo e dei bisogni, è la cosa più naturale essendo quasi tutti viaggiatori solitari. Dopo un paio d’ore mi ritrovo con due ragazzi israeliani, Yuval e Anar. Siamo ormai nel tratto che più mi preoccupava nei giorni passati, un ripido pendio di detriti rocciosi soggetto a frane, come un cartello gentilmente ci ricorda.

Un paio di passaggi sono effettivamente spaventosi, a un metro dai nostri piedi lo strapiombo porta direttamente dentro il Marsgyandi. Fermandosi a contemplarlo ci si impressiona in fretta, ma rimanendo concentrati lo attraversiamo senza problemi. Finalmente, mentre il tempo va peggiorando, avvistiamo le strutture del Tilicho base camp.

Il paesaggio è spoglio, primordiale ed il meteo sicuramente contribuisce a renderlo tale. La foschia scende dai picchi più alti, alla sera un’intensa nevicata avvolge il campo base.

Non dura molto. I sentimenti sono contrastanti, lo scenario avvolto dalla neve diventa impagabile, tuttavia si aggiunge una dose di imprevisto all’ascesa al lago del mattino seguente, di cui forse si sarebbe fatto volentieri a meno.

Ci aspettano quasi 1000 metri di dislivello distribuiti in soli 5 chilometri. 

Nella nostra sistemazione incredibilmente non c’è il wi-fi, visto il freddo gli ospiti sono tutti distribuiti nel raggio di pochi metri intorno alla stufa, ancora più sorprendentemente le persone senza rete internet tendono a parlarsi. Tra gli altri conosco Alex, un quarantenne danese intento a leggere Animal Farm di George Orwell. Ingegnere medicale, insoddisfatto della sua carriera lavorativa , pensa ad un cambiamento, nel mentre ha deciso di viaggiare diversi mesi. Dall’aspetto distinto lo immagineresti più facilmente in un caffè di Copenaghen che in uno stanzone freddo e pieno di persone puzzolenti a 4910 metri di altitudine. Riflettiamo sul come in un mondo dove il denaro sia spesso considerato il fine ultimo, il bene più prezioso sia il tempo. Pensa che il lavoro non debba essere il centro di gravità della nostra vita, lo rinfranca vedere tanta gente scegliere di investire il proprio tempo, i propri soldi nel viaggiare, magari a scapito di “far carriera” o del possedere qualche bene fisico in più. 

La ritiene una cosa positiva, che arricchisce le stesse persone, ma anche la società.

Molti viaggiatori non hanno grossi budget, tutt’altro, hanno semplicemente investito i propri risparmi in un arricchimento che va molto oltre il materiale. Spostandosi con un basso budget si tende a conoscere più persone, entrare in maggiore contatto con la realtà locale e spesso tutto questo è collegato a grandi ed indimenticabili esperienze. 

Con la mentalità giusta i compromessi diventano più o meno piacevoli avventure e l’hotel di lusso l’ultima delle necessità.

Prima dell’alba inizia la salita verso Tilicho, nel primo tratto c’è neve, la mia scelta di affrontare il trekking con le scarpe da trail run finora si è rivelata vincente, mi ha straordinariamente protetto dalle vesciche, ma oggi non paga, nel giro di poco tempo ho i piedi fradici. Sopra i 4500 metri l’ossigeno diventa merce rara, il paesaggio totalmente nevoso, si procede a fatica in un paradiso bianco. Costeggiamo la “Grande Barriera”, ribattezzata così dalla spedizione francese del 1950, guardandola non è difficile capire il perchè, è un muro continuo alto 6500 metri fino al Picco di Tilicho (7150m) che sovrasta il lago.

Il lago. Finalmente si intravede, i passi diventano lenti e pesanti, la ricompensa grandiosa. 

Completamente ghiacciato, ricoperto da neve fresca, sembra un luogo immacolato, estraneo alle dinamiche terrene, fluttuante a 5000 metri di altitudine. Sono congelate anche le bandierine di preghiera buddista, niente bagno per questa volta!

 A parte le esultanze di chi è appena arrivato a destinazione, il silenzio è totale. Almeno finchè la Grande Barriera non si mette a rombare. Penso alle valanghe, tutto nella norma probabilmente e dovrei essere a distanza di sicurezza, ma vista la recente nevicata e l’alzarsi della temperatura dopo che è uscito il sole, penso sia meglio filarsela.

La discesa è relativamente breve e senza intoppi, meno piacevole riattraversare il tratto esposto dopo il campo base. Il vento è forte, dal senso opposto incrociamo una ragazza con il volto insaguinato, presto capiamo il perchè. Le folate trasportano sassi e detriti in alto che poi ricadono sul sentiero.

Sale l’adrenalina, si attraversa uno alla volta con ampie pause durante le scariche di pietre, c’è chi usa lo zaino come scudo e chi si focalizza sul dove mettere i piedi andando il più velocemente possibile.

Nessun ferito. La definerei una giornata campale. Oltre al celestiale panorama non solo fatica, ma anche la consapevolezza di avercela fatta, servirà come spinta, come riserva motivazionale a cui attingere, nei giorni successivi ed in ogni salita, figurata o meno, che inevitabilmente ci si troverà davanti.

Ormai il peggio è alle spalle, ci si può quasi rilassare. 

Gli ultimi, tranquilli, chilometri li percorro con la mente rivolta a quel candido ed inospitale oceano bianco.

17

You might also like

Comments (3)

  • Joanna 2 anni ago Reply

    What an unbelievable experience Leo.
    You write very well.
    We feel as though we’re part of your journey.
    What a profound moment to discover you’re fine being a ‘tartaruga’ and you don’t need to try to become an antelope!

    Leonardo 2 anni ago Reply

    I’m very glad to know there’s someone involved with my little writings, thanks Joanna

    Leonardo 2 anni ago Reply

    I’m very glad to know there’s someone involved with my little writings, thanks Joanna

Leave a Reply