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In acqua, una storia che potrebbe essere la tua

Fra pochi giorni rientrerò a casa dopo otto mesi in viaggio, a torto pensavo che il principale impegno delle mie serate prenatalizie fosse cercare di mettermi alla pari con i serrati ritmi alimentari ed alcolici che la tradizione nostrana impone. Per qualche motivo, che non mi è ancora del tutto chiaro, sono stato invitato ad una chiacchierata nel mio paese natale su com’è vissuta l’acqua nei territori che ho visitato, su come la vivo io.

Per qualche altro motivo ho accettato, tra cui la volontà di mettere da parte il mio atavico disagio verso il parlare in pubblico, condividere qualche storia, tradizione e punti di vista lontani dai nostri da cui magari si può anche imparare qualcosa e ultimo, ma non meno importante, passare una serata piacevole o almeno conciliare il sonno a qualcuno. Negli ultimi mesi l’acqua l’ho vissuta in tanti contesti diversi.

Quella dolce, impetuosa dei fiumi dell’Himalaya, placida nei laghi ad altezze siderali nell’altopiano Tibetano, torbida, ricca di sedimenti nella parte finale del corso del Mekong. Salata, color smeraldo nel golfo del Tonchino nel nord del Vietnam, cristallina, paradisiaca tra gli atolli del Borneo, profondamente blu, indomabile nello stretto di Lombok in Indonesia.

Parlare d’acqua è parlare di sé stessi.

Da dove si inizia a parlare di qualcosa che è la base di ogni forma vivente?  Da cui proviene qualsiasi forma di vita, qualsiasi essere umano.

Nonostante sia facile dimenticarlo, schiavi ed imperatori dell’antica Roma, senzatetto ed imprenditori miliardari hanno tutti avuto la stessa origine, una cellula immersa nell’acqua. È il principale costituente, il 60%, del proprio corpo. Il 70% del pianeta Terra. Percentuali talmente simili che risulta impossibile capire come si possa essere arrivati ad un distacco di percezione, consapevolezza tra le due cose. 

Tra noi e l’acqua, tra noi ed il nostro pianeta.

Forse l’unico modo per parlarne senza andare alla deriva, sicuramente l’unico modo in cui posso parlarne io, è partire da una prospettiva ristretta, limitata come la propria e provare a capirci qualcosa. Come si fa?  Scavando nel mare dei ricordi. Della mia gestazione purtroppo non ci sono testimonianze, ma a quanto pare quel periodo nel mondo fluido sembra aver funzionato. Al battesimo la mia memoria non arriva, non penso comunque di perdermi nulla di significativo.

Dai racconti famigliari sembra sia stato a mio agio fin da piccolo nell’elemento acqueo, in mare, in piscina, ma, al solito, il primo ricordo nitido è doloroso. Sardegna, metà anni 90, scorazzo baldanzoso in acqua finché non arriva un dolore lancinante sotto la pianta del piede destro. Involontariamente avevo appena fatto conoscenza con la tracina, pesce ragno per gli amici. Dolore sordo, pulsante, il piede si gonfia notevolmente , compare anche la guardia medica, non ho più di 5 anni e c’è un po’ di preoccupazione.

Niente di grave, ma ai miei occhi l’acqua cambia improvvisamente aspetto.

Il mare diventa un enorme contenitore di paura. Non è l’acqua il problema, ma quello che potrebbe nascondere, paura di quello che ci potrebbe essere sotto, paura dell’ignoto. Per un po’ non ne voglio sapere di metterci piede.  Al diavolo il mare, se voglio fare il bagno vado in piscina, al riparo dall’incertezza.

Oltre alle proprie esperienze, ogni rapporto con l’acqua come elemento, ambiente al dì fuori di noi è per forza influenzato dalla geografia, dalla cultura, dal periodo storico in cui si è in vita. Per chi è nato nella seconda metà del novecento quanto peso specifico ha avuto il film “Lo Squalo” di Stephen Spielberg nel suo rapporto con il profondo blu? Sicuramente molto più alto della reale possibilità, 1 su 3,7 milioni, di essere vittima di un attacco letale.

Cercando di mettere il numero in prospettiva è più facile essere colpiti da un fulmine, per due volte. Poco importa, come perfettamente rappresentato prima nel libro e poi nel film, lo squalo è presto diventato il simbolo del timore degli abissi, catalizzatore della paura primordiale dell’ignoto.

TG, giornali e mass media non si sono lasciati sfuggire l’occasione di contribuire a costruire un immaginario sensazionalista in cui lo squalo era uno spietato serial killer sempre in agguato. La paura, la morte catturano l’attenzione, vendono bene. Il danno è presto fatto. A tal punto che Peter Benchley, l’autore del libro, si è detto pentito di come ha descritto gli squali ed è diventato un attivista per la loro protezione.

Tornando nel piccolo, nel personale. Un bambino traumatizzato da un pesce ragno non può che tremare al pensiero dello squalo. Al punto che nella mia immaginazione, in assenza di altri bagnanti, la parte più profonda di una piscina poteva tranquillamente nascondere uno squalo bianco. Una trota di discrete dimensioni al fiume Taro, a due passi da casa, era più che sufficiente per uscire dall’acqua a gambe levate.

Già adolescente, a Malta, mi è capitato di tuffarmi per poi risalire preoccupato alla velocità della luce, dissimulando la cosa davanti alle ragazzine, spaventato da quanta vita e attività ci fosse là sotto. Nel frattempo qualche altra esperienza traumatica non ha sicuramente giovato, come rimanere bloccato in un grosso parco gonfiabile con la testa mezza sott’acqua costringendo mio padre a tuffarsi da riva in stile Baywatch per tirarmi fuori dai guai. Lui andava a farsi una nuotata tornando con anfore o improbabili oggetti trovati sul fondo del mare, lo ammiravo, ma non ci provavo nemmeno ad emularlo, mi ero convinto che non fosse roba per me.

Nel tempo ho cercato di razionalizzare la cosa, l’acqua non ha mai smesso di attrarmi ed insieme provocarmi una profonda inquietudine, pur non rinunciando a farmi un bagno ed eventualmente dare un’occhiata con la maschera, non osavo uscire dal piccolo recinto autocostruito abilmente negli anni con l’aiuto delle mie paure. È una cosa piuttosto comune. Nonostante la nostra profonda connessione con essa, l’acqua non è il nostro elemento naturale, il mare è di per sé vasto, inesplorato, sconosciuto. Da sempre l’uomo gli ha attribuito significati irrazionali, immaginato di vederci incredibili bestie marine. Trasfigurato nelle sue profondità i propri timori, i propri mostri.

Tutto normale quindi, potevo convivere tranquillamente con questa situazione, farmi un bagnetto ogni tanto, possibilmente dove si tocca a due passi dalla riva e dirigere tutte le mie attenzioni alla terraferma, piena di fascino ed opportunità. Alcune cose non si scelgono ed il mare ha sempre continuato ad accendermi il desiderio di esplorazione, di cullarmi nelle sue acque senza preoccupazioni, consapevolmente o meno con questa cosa ho inevitabilmente finito per farci i conti.

Per andare oltre i propri limiti mentali, ad ogni livello, si parte da una spinta, una necessità, assolutamente naturale. Il pensiero spesso non fa altro che confonderci, porta ad immaginare scenari futuri, possibili problemi, presto l’azione si blocca sul nascere, la paura ne esce rinforzata, la storia si ripete.

Riconoscere i limiti, metterli in discussione, capire che si tratta di convinzioni tutte da provare più che di realtà inattaccabili è il primo passo per superarli. Conoscere meglio la tua paura, comprenderne i meccanismi aiuta incredibilmente a trasformarla da motivo di paralisi a strumento di crescita.

Per farlo può aiutare cambiare prospettiva su di sé e sul problema. Non è l’unica maniera, ma in viaggio, lontani dalla propria realtà quotidiana, è sicuramente più facile. Quale cambio di prospettiva migliore di immergersi letteralmente nel problema?

Sono in Thailandia nel 2016 ed un amico mi convince a provare a fare un’immersione subacquea. Mi sforzo di non metterla in mostra, ma ho una paura fottuta.  Sono impacciato ed agitato, forse vado vicino a stabilire un record per il consumo di ossigeno da tanto scende in fretta, ma è una sensazione meravigliosa.

Mi sento un’astronauta, la percezione cambia completamente nel momento in cui sei tu ad essere sul fondale, c’è un altro mondo là sotto e tu, come uomo, sei solo un piccolo ospite.  Tutto vive, sostanzialmente indifferente a te, non devi fare molto altro se non ammirare.

È un passo importante, ma un singolo evento non può comportare un cambiamento duraturo se non gli si dà un seguito, se non ci si mette alla prova con costanza. La costanza purtroppo manca, passa qualche anno ed il caso, o forse no, vuole che inizi una relazione con una persona che non vede l’ora di guardarlo il mare.

Passo più tempo vicino all’acqua, in ogni stagione, familiarizzo, decido che è il momento di tagliare quell’enorme rete che mi confinava come un pesce in un acquario. Poco alla volta, mi spingo un po’ più in là, non solo snorkeling, inizio a nuotare. La compagna di un paio di amici più esperti mi mette a mio agio. Vado anche solo. Attrazione e timore possono convivere, mi sento incredibilmente vivo.

Ogni volta una parte di me vorrebbe starsene a riva, non la ascolto. Ogni volta è superare le mie paure, affermare la mia esistenza, una bracciata alla volta. Dominare la mente, percepire il corpo. Essere lì.  Liberare ogni muscolo fino all’attimo in cui tutto si spegne, ogni pensiero scompare.

Il tempo, la distanza, la temperatura, i pesci, il fondale, la sabbia, non contano più. Procedo solamente, io e l’acqua, io ed il mare. Improvvisamente l’io scompare, forse non c’è mai stato. Per un attimo che dura un’eternità non c’è più differenza tra me ed il blu. Per un attimo mi dimentico di ogni timore. Per me è questa la magia dell’acqua, un altro elemento, altre leggi fisiche, come se per il tempo trascorso lì dentro si fosse in un altro mondo, dal quale usciremo sempre diversi.

Altro cambio di prospettiva. È dicembre, arrivo a nuoto davanti alla chiesa di Tellaro, appoggio la testa sulla boa gonfiabile che mi porto dietro, faccio una pausa, c’è il sole, ho il mare tutto per me. Sulla terraferma una persona con pesanti vestiti invernali mi scruta perplessa, forse non comprende, forse pensa che sono poco normale. Non lo biasimo.

Se io stesso mi fossi guardato con gli occhi annebbiati dalla paura di qualche anno prima come avrei potuto non pensare lo stesso? 

Eppure sono la stessa persona, la paura c’è sempre, sto solo cercando di non dargli più importanza di quella che realmente ha, che non mi impedisca di fare quello che sento, di vivere. Penso, spero ormai di aver capito che ogni piccolo sforzo, impegno per sradicare vecchie convinzioni e crearne di nuove va ripetuto con costanza.

Con più sicurezza in me stesso torna quindi il pensiero di immergermici nell’acqua, voglio sentirmi totalmente a mio agio, prendere confidenza, esplorare una parte infinitesimale di quel pianeta semisconosciuto all’interno del nostro pianeta o anche solo nuotare più tranquillo la prossima volta. 

Ottengo il brevetto da sub di primo e secondo livello, un risultato alla portata di tutti, ma che non per questo mi rende meno fiero considerato da dove sono partito. Mi trovo ora a Sipadan, nel Borneo Malese, sott’acqua. Sussulto ancora quando all’improvviso compare un Carango gigante sotto i piedi, poi rido di me stesso. Appare una spirale, un grattacielo di centinaia di Barracuda, fluttuano dove convergono le correnti, in attesa di un pasto senza sforzo.

Non ho paura, sono emozionato.

Sento di avere la fortuna di assistere ad un esempio dell’abbondanza di vita che è stato il mare per milioni di anni, che spero possa essere in futuro. Fluttuo nelle correnti, sto volando, ne sono convinto, apro le braccia, plano, i barracuda mi passano intorno. 

Non avevo mai sperato di provare niente di simile. Pochi minuti dopo compare uno squalo grigio del reef, piuttosto comune qui, abbondantemente sopra i 2 metri.  Muscoloso, elegante, spaventoso, ammaliante. Incanta per l’efficacia con cui si muove nell’acqua.

È un animale meraviglioso, non guarda ne me, ne gli altri diver, se ne va in fretta, sinuoso, probabilmente disturbato da tutto quel trambusto.

Ultimo cambio di prospettiva, per ora.

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