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Solidarietà, guardare l’altro con occhi diversi

Lo sconfinato cielo color pastello non lo dice. Le rigogliose risaie, gli onnipresenti banani non lo farebbero pensare. Ancor più difficile capirlo dai bonari sorrisi delle persone. Eppure difficilmente si può immaginare un passato più travagliato di quello che ha vissuto la Cambogia negli ultimi secoli.

Prima contesa tra Thailandia e Vietnam, poi colonia francese fino al 1953, non è raro infatti trovare persone di terza età parlare un fluente francese, il cui apprendimento era obbligatorio nelle scuole durante quegli anni. A seguire, il tanto brutale quanto ingiustificato bombardamento di gran parte del territorio per mano degli americani durante la guerra nel vicino Vietnam. Bombe cariche di odio, che hanno contribuito a creare il clima necessario alla nascita del regime dei Khmer Rossi, responsabile del genocidio Cambogiano, uno dei capitoli più tristi della storia umana, in cui trovarono la morte 1,6 milioni di persone, ovvero 1 cittadino cambogiano su 4.

Una catena di tragici eventi che ha portato il paese in condizioni disastrose ai primi anni ’90, momento in cui intervengono i caschi blu dell’ONU, i quali presidiano il suolo cambogiano fino alle storiche, ma poco trasparenti, elezioni del 1993.

La fine di tutti i problemi con l’arrivo della democrazia occidentale? Non proprio. Lo stesso partito è al potere dal 1998, infestato dalla corruzione, forte nell’ultimo decennio del, non gratuito, appoggio economico cinese.

Vedere una carovana di spropositati SUV governativi neri come la pece, con i vetri oscurati, che sfreccia tra le polverose strade sterrate di alcuni villaggi fuori città dice più di tante parole sulla situazione attuale della Cambogia.

Facile perdere la speranza. Autoconvincersi che non ci sia via d’uscita, rigare dritto (nessuna forma di protesta è tollerata), sentirsi autorizzati a badare ai propri interessi e arraffare quello che si può.

Come può un singolo uomo pensare di cambiare le cose?

Ci vorrebbe un supereroe, un visionario, un profeta. Oppure tante persone semplici con uno scopo ben chiaro, che nel loro piccolo cambiano il mondo. Una di queste si chiama Ben, organizza delle cooking class di cucina cambogiana per turisti, poco fuori da Siem Reap, sede del frequentatissimo complesso di templi di Angkor Wat. Li porta al mercato locale fuori città, quello autentico, a comprare gli ingredienti ed in un ambiente rurale, ma decisamente organizzato, gli insegna a preparare deliziosi piatti tipici.

Di per sé non sarebbe poco, ma c’è di più. Ben ospita 15 bambini orfani, in totale garantisce l’educazione a 78 bambini nella periferia della città. Da anche lezioni di inglese lui stesso. E’ una storia che viene da lontano, non un fatto isolato.              

Da ragazzo Ben bazzicava la zona dei templi, parlando con chiunque gli capitasse a tiro, cercando di imparare qualche parola d’inglese. Lì conobbe un signore americano, un incontro apparentemente come tanti.

Qualche anno dopo, diventato autista di tuk-tuk (taxi a 3 ruote popolarissimi in Asia), il caso, se così vogliamo chiamarlo, volle che i due si incontrassero di nuovo.

Il signore d’oltreoceano lo prese a cuore, decise di pagargli gli studi ed il college d’inglese. I due iniziarono a portare cibo ai numerosi ragazzi di strada della zona.    Un aiuto concreto, ma sul lungo termine non avrebbe cambiato le cose.

“Dagli un pesce e mangeranno un giorno, dagli l’educazione e mangeranno tutta la vita”. Decisero quindi di portare educazione, fondando il progetto della cooking class per raccogliere fondi con cui pagare le spese scolastiche a orfani e bisognosi.

L’americano, ormai avanti con l’età, fece ritorno negli USA per problemi di salute, prima di andarsene disse a Ben le seguenti parole: “Diversi anni fa ho piantato un seme, ora è diventato un albero, pronto ad accogliere altre persone sotto la propria ombra. Quell’albero sei tu.” Ora Ben dedica la sua vita ai bambini.

Durante la pandemia ha avuto momenti terribili, fu accusato di essere portatore del COVID, visto il suo stretto contatto con gli stranieri, per questo alcuni bambini scapparono. Non li ha mai più visti. Si chiede se è stato un buon padre per loro. Molti li chiamerebbero sconosciuti, probabilmente li eviterebbero, lui li chiama figli.

Connessioni che ci rifiutiamo di vedere, trincerati nelle nostre rassicuranti etichette. Dal colore della pelle, i vestiti, il modello della macchina. Sempre pronti a creare divisione e competizione, dal compagno di banco, al collega di lavoro, al vicino di casa. L’augurio è che la prossima epidemia, profondamente contagiosa, possa essere di solidarietà. Un sentimento dentro ognuno di noi, spesso sepolto da anni di allenamento al cinismo, alla negatività, frustrato da risentimento, paura e invidia. Un seme che avremmo un disperato bisogno di coltivare.

(articolo pubblicato sulla pagina facebook di Intersos Valtaro : “Valtaro, uno sguardo sul mondo”)

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