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Inseguendo bandiere

Tilicho insieme allo stupore e alla meraviglia ha portato stanchezza fisica e spossatezza. Poco importa, il passo di Thorung La, il punto più alto dell’Annapurna circuit, è a sole due giornate di cammino, bisogna stringere i denti, armati della stessa volontà di meravigliarsi e della consapevolezza di avercela quasi fatta.

Si riposa in una guesthouse tra le tante lungo il sentiero. Spartane, ma quasi sempre accoglienti. Il muro di ghiaccio della Grande Barriera è ancora ben visibile, illuminato dalle ultime luci del giorno. Una ripida e fatiscente scala in legno porta alle camere, il primo scalino è collassato sul pavimento in sasso, il secondo non sembra averne ancora per molto. A buio inoltrato, scendendo le scale con leggiadria, involontariamente, gli do il colpo di grazia, causando un sonoro patatrac e le risate mie e dei presenti. Ora il terzo scalino è diventato il primo. Poco dopo ne esce un divertente siparietto.

Una ragazza tedesca apprestandosi a salire si trova davanti al misfatto, ne seguono svariate imprecazioni, come se si trovasse davanti un problema insormontabile, con l’umore a pezzi si dirige in camera. Nel giro di un paio di minuti arriva un nepalese, che tra l’altro lavora nella struttura, senza fare una piega balza come un gatto sulla scala e prosegue fischiettando. 

C’è tutto il prenderla come viene tipicamente orientale.

Il sentiero che porta a Yak Kharka è tranquillo e piacevole, la giornata serena, come il nome poteva anticipare incontriamo diversi yak intenti a pascolare, sullo sfondo le imponenti cime innevate. Dopo l’iniziale salita attraversiamo un lungo falsopiano, sono assorto nel camminare, in questo momento è un piacere che da dipendenza. Mi immergo nel mio subconscio, la fatica è presente, ma non gli do peso, spingo il mio corpo più forte che posso. Osservo i pensieri, la mente fluttua, mi sento in un profondo stato di grazia e contemplazione.

Come sono arrivato qui? Vado indietro nel tempo, senza una logica, fatti apparentemente non collegati tra loro arrivano come il sole dopo una fredda notte invernale.

Un punto di non ritorno.

A 22 anni l’immagine che avevo del mondo si è strappata come carta da parati, rivelando un ruvido scenario di cui non potevo comprendere l’esistenza. La realtà probabilmente, perlomeno qualcosa che le si avvicina. Senza avvisi. Nessun segnale anticipatorio.

Cammino e provo un misto di affetto e compassione per quella persona che ero, non nostalgia. Sono felice di essere quello che sono, adesso. Si muta, inutile far finta di essere una cozza disperatamente attaccata al suo scoglio. Cammino più forte.

Per qualche istante mi sembra di comprendere tutto, il dolore ha aiutato a capire. Non c’era un altro modo? Forse differente, ma non diverso. Non nel mio caso evidentemente.

Al momento non ha importanza, ora cammino e provo gratitudine per tutto quello che è stato, per quello che in questo momento è ed ,eventualmente, sarà. Devo tenerlo a mente. Ora mi sento diamante, domani tornerò cristallo. La verità è che non sono né uno né l’altro. Ancora più difficile da tenere in testa. Nell’eterno ballo tra vita e morte, non ci si può permettere di danzare con chi si vuole. Bisogna accettare l’inaccettabile. Familiarizzare la morte per comprendere la vita, così facendo niente perderà di valore, l’insieme ne guadagnerà. Noi compresi. Non c’è l’una senza l’altra, solo scambi di materia e chissà cos’altro. Accogliere tutti gli invitati a questa incredibile festa sembra l’unico modo per percepirne la musica.

Muli e padroni

Lungo il cammino si incontrano numerosi asini carichi di legna, pietre, bombole di gas, cibo. Il passo non è solo un’attrazione turistica, ma ancora una fondamentale e unica arteria per collegare due valli. Molte persone locali trasportano pesanti ceste ricolme di sassi, sostenendole con una corda che passa intorno alla fronte. A poca distanza un paio di giovani trekker senza zaino con a fianco i loro portatori carichi come muli. C’è chi oltre al suo peso deve portare anche quello degli altri. Mi viene in mente la statistica secondo cui se tutti vivessimo come negli Stati Uniti ci vorrebbero le risorse di 5 pianeti, ancor di più per Qatar e Lussemburgo. La coperta è corta, miliardi di persone rimangono scoperte. Utopico abbandonare l’illusione di una crescita e prosperità materiale infinita e pensare ad una condivisione equa della nostra stessa casa? Prima di riempirci la bocca di belle parole dovremmo riconoscere se siamo davvero disposti a farlo.

Intanto si sale, l’obiettivo di giornata è Thorung Phedi, a 4540m di altezza, da lì domani si partirà per superare il passo. La fatica e l’altitudine insieme non sono facili da gestire. Il falsopiano è un dolce ricordo, il fiume, ormai ridotto ad un impetuoso torrente, scava gole verticali. Una ripida salita dopo l’attraversamento di un ponte tibetano mi obbliga a fermarmi senza fiato. Ogni pendio mi sembra di pesare qualche chilo in più.

Il panorama è ormai brullo, si percorre una ripida pietraia che ogni tanto lascia cadere dei detriti a valle, vado avanti per inerzia.

Il cielo è diventato completamente grigio, il ritmo del passo irregolare. Come un miraggio appaiono le costruzioni del campo di Thorung Phedi, in un’ inospitale e arroccata posizione alla fine, che poi sarebbe l’inizio, della valle. Manca solo un ultimo sforzo per il passo.

Vertigini

Intanto si riposa o almeno ci si prova. La camera assomiglia più ad una piccola stalla con tre letti, i muri sono gelidi, non c’è luce, ma non chiediamo altro. Anzi, qualcuno domanda se sia possibile farsi una doccia, gli viene candidamente risposto che la farà domani a Muktinath, il primo paese dopo il passo.

La struttura non è piccola, offre anche una discreta scelta alimentare, considerando l’altitudine. Gestita da un leggendario nepalese rasta che, quando non è impegnato a muovere in slow motion le corde della chitarra, si aggira serenamente e con fare soddisfatto tra i tavoli, con le mani nelle tasche del suo cappotto alla Matrix.

Onestamente si faticano ad immaginare gli sforzi necessari per costruire e gestire un rifugio del genere ben sopra i 4000 metri, con la “cittadina” più vicina a svariate ore di cammino.

Qui, come in tante altre zone del Nepal, l’impossibile diventa il quotidiano. Dopo qualche tempo il rischio è di dimenticarselo, tanta è la tranquillità e apparente semplicità con cui i suoi abitanti costruiscono case ed esistenze sul tetto del mondo.

Trascorrere la notte qui è un buon promemoria. Non patisco il freddo, ma dormo poco e male, più di una volta mi alzo dal cuscino in cerca di ossigeno. Nel dormiveglia, privo di lucidità, sono accarezzato dalla malsana idea di aprire la porta per far entrare aria, per fortuna rimane un pensiero. Mi alzo prima della sveglia delle 4.45. E’ il gran giorno.

Mentre vado a fare colazione mi imbatto in Adam, il ciclista americano, che si prepara ad affrontare il passo spingendo la sua pesantissima bici. E’ fonte d’ispirazione. Sono quasi 900 metri di dislivello in cinque chilometri, si parte prima che il sole sorga, fa piuttosto freddo, in 45 minuti siamo all’High Camp a 4810 metri, l’ultima possibile sistemazione prima del passo. Non un posto dove ambisco a soggiornare.

Da lì è una lenta ma costante ascesa, una processione silenziosa, interrotta da qualche pausa per respirare a fondo. Per fortuna non c’è neve sul percorso, come accade più frequentemente negli ultimi anni, gli amari aspetti positivi di fare trekking durante il cambiamento climatico.

Le soste diventano più frequenti, più volte sembra di scollinare ed essere arrivati, per poi vedere solo una distesa di rocce ed un’altra salita da affrontare. Ormai so che non può essere lontano, sono motivato a non fermarmi, ma il corpo è terribilmente stanco. Metto una canzone che mi da la carica, arriva la consapevolezza di essere ad un nulla dal traguardo, per qualche minuto mi scordo della fatica, dell’altitudine, di non avere chiuso occhio. L’effetto sta per svanire ed ecco in lontananza le coloratissime bandiere di preghiera tibetane che avvolgono il passo, mi sento molto buddista oggi. Non vedo solo bandierine, non vedo solo il cartello con scritto Thorung La. C’è anche tutta la strada percorsa per arrivarci, iniziando da paludi da cui era difficile immaginare di uscire, per poi passare ad aspre salite immaginarie le cui cime sembravano crescere ogni giorno. Ben prima di indossare le scarpe da trekking, ben prima di prendere un aereo.

Adrenalina, emozione e soddisfazione mi pervadono.

Immensi picchi sembrano a portata di mano, la vista si apre sconfinata sull’arida valle del Mustang e l’altopiano Tibetano, lasciando immaginare il brusco ed incredibile cambio di scenario che si presenterà fra pochi chilometri.

Di poter camminare sul passo di Thorung La, in Nepal, a 5416 metri di altezza non potevo darlo per scontato fino a pochi giorni prima. Mesi ed anni fa era un obiettivo virtualmente irraggiungibile.

E’ il punto più alto, ma non la fine, da qui, complice anche il clima inospitale, ci sarà poco tempo per riposarsi e avrà inizio l’infinita e ripida discesa a Muktinath, quello che sale deve pur scendere, ma questa è un’altra storia.

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Comments (5)

  • Maddi L. 2 anni ago Reply

    Grazie per averci lasciato salire a bordo dell’ultimotreno anche durante questa tappa 🤗

    Leonardo 2 anni ago Reply

    Scusa il ritardo Maddi, grazie a te per leggere!

  • Maddi L. 2 anni ago Reply

    Grazie per averci lasciato salire a bordo dell’ultimotreno anche durante questa tappa 🤗

  • Leonardo 2 anni ago Reply

    Ci siamo dentro tutti, chi più, chi meno, in base alle proprie capacità.
    Non la conoscevo quella poesia, bellissima!

  • Paolo Piscina 2 anni ago Reply

    bene. Anche la consapevolezza dei nostri privilegi e dei nostri sprechi. Non so,lo degli americani. Buon proseguimento (da il Congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni).

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