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Delitto e castigo

Con una mano afferri, con l’altra tagli. Con una mano afferri, con l’altra tagli. Con una mano afferri, con l’altra tagli.

Così per qualche ora.

Durante la mia permanenza a Biloba Farm la mansione principale è stata il taglio delle erbacce che infestavano i terrazzamenti. Un falcetto, la cui lama ogni tanto si separava dal manico. Le erbacce, anche se a volte avevano dimensione di piccoli alberi. Un cesto di vimini per raccogliere i residui, in Italia lo chiameremmo Gerla, attraversato da una corda che si fa passare attorno alla fronte. Un lavoro essenziale che ripetendo lo stesso gesto nel tempo senza variazioni diventa meditativo. Preso il ritmo mi scordo del tempo, dove sono, la testa vaga, penso a tutt’altro.

A volte non penso proprio, mi lascio trasportare dalla musica.

La combinazione di un lavoro fisico ripetitivo svolto all’aperto ha un effetto positivo sul mio umore, i turni non esattamente massacranti aiutano. Dan e Dries, insieme ad Hannah i miei compagni di falciate, hanno una cassa bluetooth e c’è sempre un piacevole sottofondo musicale, elettronica per lo più, ma c’è spazio per tutto, si va dalla tecno belga a Rino Gaetano. Diventa un momento di scambio, si scopre di avere gusti simili, si conversa, facciamo a turno per andare a svuotare i cesti traboccanti di verde al punto di raccolta del compost, è decisamente un bel clima di lavoro e stiamo dando una mano a qualcuno. Ramesh e Beemal, due lavoratori Nepalesi, ci scrutano divertiti durante una delle loro numerose pause. 

Lavorano a fiammate, nello stesso tempo tagliano il doppio se non il triplo del verde rispetto a noi volontari, poi come se avessero consumato ogni energia se ne stanno seduti per un po’. I guanti sono sconosciuti, più di una volta mi affetto un dito, per fortuna la lama non è particolarmente affilata, me la cavo con un taglietto e qualche imprecazione. Presto imparo a fare più attenzione.

Dopo un paio di giorni compaiono le prime vesciche, le mie mani non potevano certo aspettarsi che passati i 30 anni le avrei portate a sperimentare il lavoro agricolo e non dei più delicati. Ogni tanto si raccolgono ortaggi e mettono giù nuove piantine, ma sono brevi parentesi tra una falciata e l’altra. La giornata è scandita dai ricchi pasti. Il tè pomeridiano preparatoci da Deepa segna la fine del lavoro.

Dopodiché non è che ci sia molto da fare, il villaggio più vicino è a mezz’ora di cammino, ma presto ci si rende conto che non c’è bisogno di ricercare altro. Nel tempo libero si conversa, si legge o semplicemente si guarda il sole scomparire dietro le verdi montagne, qui essendo più vicini all’equatore tramonta relativamente presto e le giornate seguono il ritmo della luce naturale. Arrivato da qualche giorno mi viene riferito un episodio a cui inizialmente, forse per via di una comunicazione poco fluida, non do troppa importanza. Dalla strada, che passa una ventina di metri sopra la farm, dei ragazzi gridavano insulti contro i volontari stranieri, Thomas (il proprietario norvegese) e Deepa (sua compagna originaria di Pokhara, altra regione nepalese).

Mi viene detto che c’erano già state vicissitudini simili in passato. L’ odio verso lo straniero, il diverso, può trovare mille strade per propagarsi, non mi stupisce, “son ragazzi” penso e finisce lì. L’indomani siamo al lavoro nei terrazzamenti, in basso rispetto alla struttura principale della farm (dove si dorme e mangia), ormai il pensiero sta già andando verso la merenda e l’ozio del tardo pomeriggio quando udiamo un forte e sordo botto provenire dall’alto. Seguono delle urla, sembra il preludio ad una collutazione, sono Deepa e Beemal.

Di corsa, con Dan e Dries, risaliamo le terrazze, capiamo che i rumori vengono dalla strada, accorciamo quindi il percorso risalendo un paio di brevi pendii terrosi usando il falcetto per assicurare e velocizzare l’ascesa. Sono attimi in cui l’adrenalina ha il sopravvento, non so cosa aspettarmi una volta arrivato sopra, mi accorgo che il falcetto può essere una pericolosa arma ed una sensazione di potere e sicurezza mi inebria.

Per qualche istante nella mia mente divento paladino della giustizia e difensore dei miei padroni, eviterei volentieri di venire alle mani, ma non vorrei facessero del male a Deepa. “Farò quello che la situazione richiederà” dico a me stesso con fare gagliardo. Arrivati alla strada non si vede nessuno, camminando verso l’ipotetica origine dei rumori guardo la mia arma e mi chiedo di preciso cosa penso di fare falcetto alla mano davanti ai presunti aggressori, presto mi sento ridicolo.

Giriamo la curva, ancora nessuno. Sentiamo di nuovo urlare, vediamo Beemal bastone alla mano, sta inveendo contro i malfattori, al suo fianco c’è Deepa, stanno tutti bene. Apprendiamo che il forte botto è stato causato da un lancio di pietre verso terreno ed edifici della fattoria. Uno ha fatto centro sulla tettoia, un altro rimbalzato nel cortile, i colpevoli dei ragazzi, probabilmente ubriachi.

Si sono addentrati nella giungla e volatilizzati. Non ci sembra il caso di seguirli lì dentro, a che pro?  Giocano in casa, finirei per perdermi o farmi del male da solo. Sulla via del ritorno con Dan e Dries ci scambiamo qualche sguardo, ridendo dell’assurdità della situazione e di quanto per un breve momento fossimo stati galvanizzati “armi” alla mano. L’ arma del delitto, il sasso, non è per nulla piccolo, è atterrato a pochi metri dal tavolo dove mangiamo, in più “Babu”, il nipote di Deepa gioca spesso nel piazzale. È andata decisamente bene.

In questi giorni si stanno svolgendo le elezioni nazionali, tutto è fermo, per tre giorni non si lavora, molti uomini trascorrono la giornata bevendo, riaffiorano vecchie dispute o semplicemente l’ignoranza di alcune persone è libera e ha tutto il tempo per esprimersi. Non credo quei ragazzi abbiano idea di cosa facciamo qui, sono abbastanza sicuro che non abbiano nemmeno idea di quello che fanno loro, è bestialità gratuita, inutile trovarci ragioni. L’ accaduto non fa certo vacillare la mia impressione sul popolo nepalese, di cui la stragrande maggioranza è genuinamente interessata allo straniero e pronta a condividere con lui il poco che hanno.

Odio e ignoranza sono internazionali e non sarà un singolo fatto a farmi cambiare idea. Gli episodi negativi sono quelli che di solito rimangono impressi, su cui di solito ci si sofferma, fanno notizia e condizionano pesantemente un giudizio. A quanto accaduto potrei contrapporre almeno un centinaio di fatti positivi riguardo al mio periodo in Nepal. Sarebbe una perdita di tempo elencare pro e contro come se parlassi di un prodotto da scaffale.

Sono solo un ospite qui, preferisco osservare e più osservo, più trovo inutile etichettare come buono o cattivo qualcosa di complesso come una nazione o gli esseri umani che la compongono. Se fin qui l’esperienza è stata peculiare, mai avrei immaginato cosa sarebbe potuto succedere un paio di giorni dopo. Poco dopo colazione sono in camera per prepararmi all’inizio del lavoro, dalla finestra noto un po’ di trambusto nel cortile. Ci sono un paio di ragazzi e qualche adulto a me sconosciuto, l’atmosfera sembra nervosa.

Esco, mi allaccio le scarpe con estrema calma (nella veranda e dentro la casa sono vietate) cercando di capirci qualcosa. Sono i colpevoli del lancio di pietre o almeno due di loro. Fatico a dedurne l’età, ma non gli darei più di 18 anni. Non sono soli, ci sono le loro madri e un fratello.  Mi viene detto che se invece che contattare i genitori si fosse denunciato il fatto alla polizia sarebbero finiti direttamente in prigione.

L’ onore della famiglia ne sarebbe risultato irrimediabilmente compromesso, le prigioni in Nepal sono ancora meno invitanti che in altri paesi, quindi meglio per tutti provare a risolverla tra di loro. Il clima è serioso ma il dibattito pacifico, Beemal e Deepa sembrano impegnati in un lungo e severo rimprovero rivolto ai ragazzi. I loro genitori muti.

“Tutti concordi sul da farsi ed impegnati nell’educare e riportare sulla buona strada gli incoscienti. Che cosa fantastica!” penso. Mi sto già approfittando dell’orario flessibile, non posso più trattenermi e scendo le scale verso i terrazzamenti falce alla mano.

Un sarcastico sorriso si disegna sul mio volto immaginando una scena simile in salsa italiana con genitori urlanti, pronti a negare qualsiasi evidenza pur di scagionare le loro creature senza peccato. A quel punto nella felice ipotesi in cui non arrivassero alle mani, in breve tempo scenderebbero in campo avvocati e servizi sociali, la faccenda durerebbe anni tra sporadiche e perfettamente inutili sedute in tribunale. In attesa del verdetto, se mai arriverà, i due giovani avrebbero tutto il tempo di autoconvincersi di essere rispettabili cittadini, consapevoli del fatto che nel loro paese, basti avere la faccia tosta e possono fare il cazzo che gli pare.

Tre ore dopo mi riaffaccio sul cortile. Sono ancora tutti lì, ma il panorama è cambiato drasticamente.

I due malcapitati, grondanti di sudore, si esibiscono in una infinita sequenza di piegamenti sulle gambe, sotto lo sguardo attento e severo di Deepa e davanti alle madri che osservano in silenzio. A quanto pare il giudice ha emanato il verdetto. Non ho idea da quanto vada avanti questa punizione, ma non finirà a breve. Seduti a pochi metri, in attesa di mangiare il nostro Dal Bath, io, Dan e Dries ci guardiamo increduli, quasi divertiti ed indecisi se credere a quello che si presenta davanti ai nostri occhi.

Intorno al siparietto tutto tace.

Arriva il Dal Bath, iniziamo a mangiare, impossibile non guardare, man mano lo scenario diventa più surreale, se possibile, ed i bocconi più difficili da mandare giù.

Il castigo ora diventa violento.

Ai piegamenti si alternano flessioni sulle braccia, Deepa sfodera un flessibile bastone di legno e con gli occhi truci gira intorno ai due incalzando a turno su gambe e fondoschiena prima dell’uno e poi dell’altro. Viene servito il Dal Bath anche alle madri ed al fratello, con apparente tranquillità consumano il loro pasto. Qualche istante di riposo e riprendono i piegamenti, un ragazzo sembra mollare, un fendente sulle gambe lo convince a non farlo.

Sta diventando troppo anche per il più accanito sostenitore delle punizioni fisiche. La punizione si è trasformata a tutti gli effetti in una pena. La vittima è ora diventata giustiziere, c’è una sorta di fascino arcaico in tutto ciò, ma non nego mi spaventi. Con un bastone ed una ragione per randellare i suoi occhi si sono rapidamente iniettati di sangue.

Dentro ci vedo il potere. Il senso di onnipotenza che trasmette a chi lo detiene, portando ad esercitarlo con ogni mezzo fino a distaccarsi emotivamente dai suoi gesti, decolpevolizzandosi. Quando chi possiede il potere ha la cieca convinzione di rappresentare la giustizia e si sente a priori legittimato a farlo anche con mezzi violenti, l’umanità perde. Sempre. Da spettatori continuamo ad osservare, ora con disappunto.

Nessuno osa mettere il becco nella faccenda. In generale nessuno parla.

Gli attori di questo teatrino umano sembrano tutti concordi sul come metterlo in scena. Il supplizio finisce, stremati i ragazzi si siedono senza battere ciglio, accettano il loro destino. Il clima improvvisamente diventa disteso. La lezione è stata dura, umiliante, riusciranno i colpevoli a trarne un insegnamento educativo? Alla fine lo scopo di una qualsiasi pena, punizione dovrebbe essere educare, la fermezza è necessaria, ma calpestando la dignità di un uomo è forte il rischio di ottenere l’effetto contrario.

Una parte di me teme che l’indomani possano dare fuoco a tutta la proprietà. Non succederà.

Almeno fino alle prossime elezioni.

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