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Just like heaven



L’Annapurna circuit inizialmente fiancheggia il corso del fiume Marsgyandi, che scorre impetuoso e continuo rappresentando una sfida per i canoisti più intrepidi.

Mi fermo più volte a contemplare le sue acque turchesi dimenarsi fra gigantesche rocce, incessantemente modellate nei secoli. Un momento si cammina al livello delle sue acque, poco dopo qualche centinaio di metri più in alto, a volte urla, altre è più discreto, ma è un sottofondo costante e, a suo modo, rassicurante. Non ci si sente mai soli.

La grande maggioranza dei villaggi sorge lungo il suo letto, è una risorsa idrica apparentemente inesauribile, il fiume è vita. Innumerevoli sono i segni dei suoi danni durante la stagione monsonica, ponti divelti, alberi sradicati e trasportati ad altezze improbabili, case in macerie, il fiume è anche morte. Nessun confine delineato tra le due cose, i locali sembrano saperlo ed accettarlo come un unico ed ineluttabile dato di fatto. Si cammina a lungo seguendo la strada, fino a qualche anno fa si fermava a Syange, a pochi chilometri da dove sono partito, ora si estende molto più in là, permettendo di arrivare con grossi mezzi fino a Manang, già collegata da altre tratte.

Per svariati chilometri sembra di essere in un grosso e discontinuo cantiere in costruzione. C’è chi ci guadagna. La parte alta del trekking è ora più accessibile ad un turismo più rapido e sicuramente meno faticoso, allargando a dismisura il numero dei possibili visitanti, le grandi compagnie turistiche, locali e non, ringraziano. Il tragitto è diventato appetibile anche per i motociclisti, seppur il fondo stradale sia piuttosto sconnesso. Magari fra qualche anno si potrà arrivare al passo di Thorung La (5416m) in un paio di giorni, non una grande idea, il mal di montagna sarebbe assicurato. Interi villaggi ne sono invece gravemente penalizzati, venendogli di fatto negato l’importante apporto del turismo, sul quale avevano dirottato le loro risorse negli ultimi anni.

La situazione si sta evolvendo abbastanza in fretta, il progresso, accecato dal profitto, arriva senza una reale pianificazione, gli effetti collaterali rischiano di superare gli aspetti positivi. Probabilmente sul lungo termine l’unico sconfitto sarà l’ambiente, visto il già precario equilibrio idrogeologico della zona. Intanto la natura, indifferente a tutte le fatiche umane, regala paesaggi meravigliosi e senza tempo. Sono estasiato ad attraversare il primo di una lunga serie di ponti tibetani, li trovo estremamente scenografici. Sembra piuttosto solido, la struttura è metallica.

Non avendo piloni camminandoci sopra oscilla leggermente, guardandosi i piedi si vede scorrere il fiume tra gli spazi della passerella, sembra vagamente di galleggiare a mezz’aria, non penso farebbe un gran piacere a chi soffre di vertigini. Questi ponti fluttuanti sono solitamente diversi metri più in alto del letto del fiume, per avere un margine di sicurezza nella stagione delle pioggie, per molte persone è l’unico collegamento con il resto del mondo ed è solo uno dei tanti segnali di come possa essere precaria l’esistenza qui.



Il tempo e l’acqua



Dopo 16 chilometri di cammino ed aver visto una cascata alta 200 metri che mi ha fatto riconsiderare in difetto tutte quelle viste in precedenza da quando ho messo piede su questo pianeta, arrivo al paesino di Tal. Qui la valle si apre in una grossa spianata, una volta c’era un lago (Tal in nepalese), da cui la cittadina prende il nome. La sua conformazione geografica le ha creato diversi problemi, lo scorso giugno è stato devastato dall’inondarsi del Marsgyandi. I segni si vedono ancora distintamente, molte case sono distrutte ed abbandonate allo scorrere del tempo, se ne stanno costruendo di nuove.

Il Nepal è il quarto paese al mondo per vulnerabilità al cambiamento climatico. Frane ed alluvioni diventano sempre più frequenti ed intense. L’Himalaya è il terzo bacino di ghiaccio mondiale dopo i due poli, si sta scaldando più velocemente della media globale, accelerando lo scioglimento dei ghiacciai. Questo nel lungo periodo, tra le tante altre cose, determinerebbe la diminuzione di un importantissimo bacino idrico con gravi conseguenze sul territorio.

La consapevolezza dei Nepalesi (e non solo) a riguardo è tutta da vedere. Intanto a Tal, imperterriti, ricostruiscono la loro quotidianità. Trascorro la notte ospite nell’hotel (il termine è relativo) di una gentile famiglia, con pollaio e galline scorazzanti e scagazzanti davanti alla camera. L’alloggio è modesto, non manca niente, come il gestore tiene a sottolineare c’è anche l’acqua calda, non è scontato. Le uova erano sicuramente a chilometro 0. Al mattino presto mi rimetto in marcia, ho molto dislivello da fare per arrivare ai 2750m di Timang, incontro poca gente, pochissimi trekkers. L’unico degno di nota è a Kante, un pittoresco e paesino molto colorato collegato alla strada da un ponte tibetano di 60 metri, con un franco-mongolo. Comunica poco in inglese, riesce solo a dirmi che si chiama Dhala Ghalu, Sky-Hawk in inglese, aquila del cielo in italiano. Mi basta questo, il nome è epico, altre informazioni rischierebbero forse di sminuirlo.

L’ultima salita per Timang è infinita, ho percorso ormai più di 20 chilometri, maledico lo zaino che sembra voler scavare dentro le mie spalle e diventare parte di me, ho cercato di portare solo l’essenziale, ma è piuttosto pesante, se avrò davvero rimosso tutto il superfluo lo scoprirò solo tra qualche giorno. Finalmente arrivo in paese, il panorama inizia ad essere davvero montano, sono circondato da massicci di 5000 metri, suscitano timore e riverenza anche se qui non fanno notizia. Trovo una camera in una graziosa e variopinta struttura che sembra uscita da un film di Wes Anderson, mi concedo il lusso di una doccia calda consistente in un secchio da svuotarsi progressivamente addosso con una brocca, è sorprendemente piacevole.



Paradisi da scalare



La vegetazione è cambiata, le fitte foreste hanno lasciato spazio a conifere e pini, stiamo salendo di quota. L’oste mi chiede dove mi fermo la notte successiva “Dhikur Pokhari” le dico, “lì c’è il paradiso” risponde, immagino un panorama divino con vette innevate e mi incammino. A ThanChowk mi fermo ad osservare degli uomini intenti a costruire una casa, spaccano e modellano grosse pietre una ad una con martello e scalpello, pazienti ed instancabili, come un fiume leviga i sassi.

Lungo la strada principale noto le conseguenze di diverse frane, una di queste, complice il vento sembra abbastanza instabile. Dei grumi di terra iniziano a rotolare verso valle, esattamente dove mi trovo, accelero il passo, osservo una ragazza nepalese che fa lo stesso, continuando a parlare al telefono come nulla fosse, probabilmente è quotidianità per lei. Passando il paesone (per gli standard della zona) di Chamè entro dentro un bosco di sempreverdi che pare senza confini. Poco dopo scorgo in lontananza una colonna di una ventina di persone marciare in fila indiana, guardo meglio ed ho un sussulto, hanno dei fucili, sono militari. Essere in presenza di uomini armati mi mette sempre a disagio, a maggior ragione se mi trovo in mezzo al nulla e mi è piuttosto difficile comunicare con loro.

Poco a poco li raggiungo, diversi di loro sono intenti a fotografare una cascata, non sembrano minacciosi, uno di loro che sa qualche parola di inglese mi chiede di dove sono e se sono solo, domanda se non ho un portatore (No porter?) con fare da gradasso rispondo ridendo “I’m the porter” e gli indico il mio mastodontico zaino. Se la sghignazza divertito.

Una pioggia leggera, ma continua mi accompagna quasi fino a Dhikur Pokhari. Poco prima del paese mi trovo davanti una parete concava di roccia che si alza di 1500 metri dal letto del fiume, non sembra appartenere a questo mondo, è il Paungda Danda. Gli abitanti del posto lo chiamano Swanga Dwar (cancello del cielo), credono che gli spiriti dei defunti debbano salire questa parete dopo aver abbandonato il loro corpo. Ecco il paradiso a cui si riferiva la signora.

Come spesso accade la realtà supera l’immaginazione. Dhikur Pokhari, 3000 metri di altitudine, si affaccia a questa meraviglia ogni giorno. Prima di cena faccio un giro per l’unica via del paese, mi guardo intorno distrattamente e rimango a bocca aperta come Sam Neill quando vede per la prima volta i brontosauri nel primo Jurassic Park. E’ l’Annapurna II, le cui nevi brillano sotto gli ultimi fasci di luce del tramonto, creando un contrasto ancora totale con tutto cioò che lo circonda.

Sfiora gli ottomila metri. Si erge maestoso, la sua verticalità lascia stupefatti, è lì, lo si vede bene, eppure per come svetta dietro le altre cime, sembra un corpo estraneo, qualcosa che il mio occhio, la mia testa non riescono a contestualizzare.

Un piccolo banco di nebbia si staglia sopra la cima, come se questa gigantesca montagna fosse stata appena creata dal nulla e scrutasse con superiorità il mondo sottostante.

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Comments (2)

  • Leonardo 2 anni ago Reply

    That’s definitely a good idea!

  • Joanna 2 anni ago Reply

    I think you should have a map which shows us where you started and where you’re going.
    What a wonderful journey!

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